SOLI E BEN ACCOMPAGNATI
I primi tre dischi di Solitunes, etichetta torinese che produce “solo dischi in solo”
L’idea non è forse nuova, ma la realizzazione e gli esiti meritano più che un cenno. L’etichetta si chiama Solitunes, nasce a Torino da un’idea dei contrabbassisti Federico Marchesano e Stefano Risso, molto attivi sia come accompagnatori che come improvvisatori, con il contributo di Francesco Busso (noto nei giri del folk piemontese e oltre, e anche grafico).
L’etichetta – spiegano i creatori – ha origine da una visione “un musicista su un’isola deserta con un microfono pronto per registrare davanti a sé”, e si propone di documentare “quasi come se si trattasse di una indagine scientifica, il percorso interiore che un musicista compie durante la registrazione di un disco in solo”.
Tre dischi inaugurano la serie. Tre cd stampati benissimo, con una veste grafica che riesce a rendere apprezzabile persino l’odiato jewel box (è tutto detto), con booklet ritagliati, o stampe direttamente sulla plastica. Sono un disco di chitarra sola e due dischi di solo contrabbasso.
Il primo porta la firma di Enrico Negro, chitarrista attivo soprattutto sulla scena del “nuovo” folk piemontese (Tendachënt, TradAlp, e il progetto “folktronico” Edaq, insieme fra gli altri ai citati Stefano Risso e Francesco Busso). La memoria dell’acqua contiene materiali eterogenei: un omaggio De Falla, rigodon e saltarelli, monferrine della tradizione piemontese e brani dal repertorio delle quattro province, una trascrizione di Monteverdi e una versione di “A cumba” di De Andrè – Fossati. Eterogeneità, ma grande senso di continuità, come di un discorso ininterrotto tenuto insieme da tocco e suono. La “costruzione di una voce italiana del chitarrismo acustico”, dice bene Andrea Carpi nelle note di copertina. Quasi una “voce piemontese” – o “nordovestina” – che guarda alla tradizione americana e soprattutto britannica (il solco tracciato da Bert Jansch e John Renbourne è sempre fertile) e che ha nella produzione recente italiana esiti analoghi (altrettanto originali) nel lavoro dei sardi Elva Lutza.
Più “di ricerca” nel senso classico del termine i lavori di Risso e Marchesano sul contrabbasso, ma senza mai cadere in quel fastidio che i dischi “di ricerca” possono suscitare a chi non pratica quello strumento (o quella particolare “ricerca”…).
Risso sceglie di lavorare con gli scarti, quello che “rimane fuori”: dai dischi, dal palcoscenico, dalle session. Lo recupera e lo lavora ma – avverte – “con soli processori di dinamica”, senza altri effetti elettronici. L’effetto, avendo in mente questa regola, è notevole e va nella direzione di una sorta di fascinoso glitch acustico, fra picchiettii, inquietudini (“Cumuli di foglie”) e aperture che ricordano i lavori di Colin Stetson sul sax baritono (ascoltate “L’angelo”).
Più “suonato” il lavoro di Federico Marchesano, ma altrettanto interessante per la sua capacità di tenere insieme mondi diversi e di spingere lo strumento verso suoni e effetti inattesi. A volte c’è qualcosa, nelle atmosfere, che richiama un post rock sinfonico, altrove oasi di serenità. Altrove ancora momenti più introversi di improvvisazione (fra cui una bella serie di ambientazione siciliana). Spiccano le parti distorte di “Contrabutoh”, che arrivano a turbare una costruzione fra il melancolico e l’inquietante.